COVID-19 Isolation

COVID-19 Isolation

Tell me a story” started in 2017 when, intrigued by our way of managing and living our personal space, I decided to transform my feeling into images.

The separations, loneliness, social distances, even cultural barriers that inevitably cross the course of our life have represented, and represent, for me, a reason of interest for the search for my shots.

And that’s why wearing a medical mask to read your newspaper or sit at a distance at the metro stop or be in the opposite direction in a room of a museum, regardless of the moment the photo is taken, represents isolation, wanted or imposed, by all that surrounds us.

The isolation that does not reflect, as often happens, the social and public life in which we live day by day and where physical contact is often a human need to highlight our relationships, even formal ones.

The project does not follow a precise itinerary, and does not have a specific place in which it develops, but is the result of “stolen moments” in my travels in many cities in Europe.

And this is how Lisbon, Madrid, Seville, Milan, Amsterdam, Prague, Dresden or an isolated Atlantic beach take on the same role of the stage for a moment to tell a story;

a story made of people, of fake or real solitudes, of life that goes on.

A daily life that today, in the difficult moment that all humanity is going through with COVID-19 has affected our lives, holds hope, one that will make us overcome the difficulties once again and make us return to open our windows to the world.

A story that each of us will be able to tell simply by following our emotions in looking at a photograph when a simple hug on a balcony in Madrid becomes a sign of hope or a child’s play becomes an escape from this reality.

After all, if we don’t continue to dream and invent stories, what are we left with?

Piccolo dizionario fotografico di un viaggiatore: Esperar

Piccolo dizionario fotografico di un viaggiatore: Esperar

Ci sono parole che a volte ci dicono di più del loro significato intrinseco, o, magari senza pretenderlo ne acquistano altri…
In spagnolo, per esempio, aspettare si dice “esperar” , l’ho trovata una parola “romantica” forse perché in fondo aspettare è anche sperare.

Small photo dictionary of a traveler: Esperar

There are words that sometimes tell us more of their intrinsic meaning, or, perhaps without expecting it, they acquire others …
In Spanish, for example, waiting is called “esperar“, I found it a “romantic” word, perhaps because after all, waiting is also hope.

Alice in wonderland

C’è un posto che non ha eguali sulla terra…
Questo luogo è un luogo unico al mondo, una terra colma di meraviglie mistero e pericolo.
Si dice che per sopravvivere qui bisogna essere matti come un cappellaio.
E per fortuna… io lo sono.

Il Cappellaio Matto

Caronte

Caronte

“L’esperienza non è ciò che succede a un uomo, ma quello che un uomo realizza utilizzando ciò che gli accade.” Aldous Huxley

“là c’é una porta rossa
la vorrei dipinta in nero
niente colori
tutto dipinto in nero
io volterò la testa fino a quando arriva il nero
là c’é una fila d’auto
coi fiori e col mio amore
che non tornerà più
io se mi guardo dentro vedo il mio cuore nero
poi forse svanirò
e non dovrò più guardare la realtà
come si fa
ad affrontare le cose
se tutto il mondo é nero”

 

Paint it Blacke il mare di notte che seguiva, a tono, il colore della canzone degli “Stones” che ronzava nelle mie orecchie, facendo passare quasi inverosimilmente, in secondo piano, il rumore sordo dei 200cv che spingevano la mia barca velocemente verso terra.

Davanti a me, la costa salentina che cominciava a delinearsi…

Pallide luci apparivano quasi tirate fuori dalla foschia come per chissà quale magia.

Tutto in poche ore di traversata con il mare tranquillo, ma gelido;

gelido come la notte invernale che ci avvolgeva e nascondeva da occhi indiscreti.

Questa era ormai da tempo la mia vita.

Due o tre “viaggi” a settimana; brevi “attraversate” clandestine di questo braccio di mare che facevano di me un “mercante” del mare;

un mercante con la sua merce a bordo…uomini…donne…bambini…

Questa era la mia vita.

Questo il mio “lavoro”; lo “scafista”; il “mercante del mare”, come amava definirsi chi quel lavoro lo gestiva, un modo come un altro per nascondersi dalle responsabilità, un modo come un altro per non usare definizioni più consone ma sicuramente più dure lasciando il romanticismo ad altri momenti.

Un traghettatore di anime che fuggivano da un inferno fatto di guerre, stenti, povertà e umiliazioni; per finire catapultati, inconsapevoli, come vittime sacrificali, in un altro ben peggiore.

Ebbene si…

per questo “paint it black” era la mia canzone, perché ”io se mi guardo dentro vedo il mio cuore nero…”.

Ma non era iniziata così la mia vita.

Valona la mia città.

Ed io poco più che un ragazzo; cresciuto con i sogni di tutti i ragazzi della mia età; lo studio, la musica, gli amici, le ragazze, il futuro.

Quel futuro che a volte solo perché sei in quel punto preciso della terra nasce già incerto e pieno di problemi; eppure a questo nessuno pareva pensarci; e la vita, tranquillamente, scorreva nei modi dettati dalle abitudini cittadine.

La mia famiglia numerosa aveva costretto un po’ tutti a darsi da fare per mantenersi; ma per me, Adan, il più piccolo di sei fratelli, la sorte, almeno in questo, aveva giocato a favore, non avevo conosciuto, grazie al lavoro dei miei genitori e dei miei fratelli maggiori, la miseria che circondava la nostra casa e il paese intero, e avevo potuto portare a termine gli studi fino al liceo e a seguire quelli di pianoforte nella scuola del maestro Kristof, un ottimo musicista ormai in pensione ma con la voglia di voler tramandare la sua conoscenza a chi ne avesse avuto la sensibilità e la costanza.

Avevo passato la mia gioventù spensieratamente come era giusto fosse per un ragazzo della mia età; ammirando alla televisione quel paese al di là di quel braccio di mare così breve da attraversare; e sognando un giorno di poterci andare per proseguire e perfezionare quel lavoro iniziato in patria, tutto per continuare il mio avvenire, per realizzare i miei sogni.

Il mio avvenire…

su questo argomento potrei intrattenermi a lungo, visto che più volte mi ero fermato a fantasticarci sopra e a discutere con i miei amici più cari e fidati;

il mio avvenire…

quello sognato, era in una grande orchestra, oppure da “solo” con il mio pianoforte, sempre in giro per il mondo; sognando il Metropolitan, la Royal Albert Hall, La Scala;

sognando di “accarezzare” un giorno i tasti di quello “Steinway & Sons” con la stessa delicatezza e voluttà con cui si accarezza il corpo di una donna.

Sognando di calcare palcoscenici mai visti prima ma solo sentiti nominare. E così anche se la mia unica strada percorsa fino a quel momento era quella che da casa mia portava alla scuola di musica, ogni volta quell’attraversamento diventava la “Fifth avenue” di New York o una via affollata di Hong Kong e poi Shangai, Pechino, Mosca, Parigi, Madrid, Londra…

io ero sempre lì a Valona, eppure avevo già fatto il giro del mondo chissà quante volte.

Così trascorrevano le mie giornate; tra passeggiate al mare cercando di vedere o anche solo di percepire il “movimento” della costa dall’altra parte; e tra “voli” sulla tastiera del vecchio pianoforte della scuola di musica donato da un benefattore tanto tempo fa; il maestro raccontava una specie di leggenda su questo strumento, pare fosse appartenuto ad un ricco pianista e che avesse con lui girato il mondo, poi, non si sa bene come, una mattina era apparso nel cortile della scuola come per magia, il maestro lo aveva fatto portare dentro, e dopo averlo pulito e sistemato aveva ricominciato a suonare dopo anni di silenzio; magari la storia non era vera, ma a noi tutti piaceva molto l’idea che quello strumento avesse un’anima che lo rendesse diverso da qualsiasi altro pianoforte sulla terra;

così i miei studi erano portati avanti con il massimo impegno; quasi senza sosta, fino quando ad una classica “fuga” si sostituiva un “classico” rock che faceva rabbrividire il mio maestro; ma che in compenso mi procurava l’approvazione e il compiacimento dei miei compagni; ed io suonavo soddisfatto il mio piccolo concerto, per loro, ma anche solo per me.

Ed era in quegli attimi di “follia musicale” che “Ziggy stardust” non era solo l’alieno cantato da David Bowie; ma quel modo di essere entrava nella mia anima, quasi a farmi sentire alieno nel posto dove ero nato; uno stimolo in più e la ferma volontà di cercare di mettermi in viaggio per raggiungere la mia meta.

La mia meta;

il MIO PIANETA, era fisso lì davanti a me, a poche ore di mare, al di là di quei 100 km del canale d’Otranto forse più lunghi da nominare che da attraversare.

Poi il mio concerto finiva, prima che il maestro desse di matto per quella musicaccia, come lui la definiva, che ascoltavamo, ed io chiudevo accuratamente il pianoforte, salutavo il maestro e i compagni e con la testa tra le nuvole tra musica e viaggi mi dirigevo verso casa con aria sognante, attraversando ancora una volta una città del mondo per ora sconosciuta.

La cosa che mi avrebbe fatto sembrare, agli occhi di molti, ancora più pazzo di quel che potevo sembrare era che nel mio camminare verso casa non era solo la strada che si trasformava davanti ai miei occhi, ma anche le persone che incrociavo avevano di volta in volta i lineamenti degli abitanti dei posti che con la mia fantasia visitavo, così vedevo occhi a mandorla, pelli ambrate, occhi chiarissimi e mi guardavo intorno con un sorriso soddisfatto per questa piccola magia che ogni volta si realizzava nella mia fantasia;

ma, mentre ancora i sogni vagavano nella mia testa lasciandomi sulle labbra un sorriso di appagamento ben distinguibile anche da chi mi avesse guardato in volto anche solo per caso; appena varcata la porta di casa un brivido freddo attraversò il mio corpo;

non avevo mai letto la disperazione negli occhi di mia madre almeno fino a quel momento, e la scena che vidi entrando in casa non la potrò mai dimenticare; mia madre in lacrime seduta davanti al tavolo, mio fratello maggiore che le teneva la mano e mio padre con una mano fra i capelli e l’altra poggiata sulla televisione a sentire le notizie che arrivavano come pugnalate;

Superi, ogni giorno, indenne mille ostacoli per accorgerti che bastano pochi secondi per sprofondare in quell’abisso che avevi sempre accuratamente evitato.

Questa volta il nostro abisso aveva un nome ed una chiara provenienza: banche e investimenti, praticamente “crack economico”.

Banche ed investimenti;

le prime erano quelle che si erano trovate nelle casse quintali di moneta senza nessun valore che quello della carta straccia o souvenir per turisti curiosi;

e gli investimenti erano quelli che, purtroppo, conseguenza di svalutazioni e manovre azzardate erano andati a distruggere ciò che restava di un piccolo capitale familiare fatto di anni di fatica e lavoro onesto.

Albania Anno Domini 1991…l’inferno iniziava da qui…

E così bastano pochi secondi per accorgerti che non hai più nulla; e che i sogni si sono infranti come le onde sugli scogli che hai ammirato fino a pochi minuti fa. Che la “Fifth avenue” di New York è scomparsa insieme alle strade di Londra, Pechino, Mosca, Hong Kong…

Tutto finito…

“niente colori tutto dipinto in nero…”, e come unica soluzione, unica via d’uscita, ricominciare da zero in una terra che non ha più nulla da offrire se non quello che non avresti mai creduto di poter arrivare a fare.

E così, è iniziata la mia nuova vita; la mia avventura su quel mare che avrei voluto attraversare una volta sola e che per ironia della sorte continuo a “guadare” senza soluzione di continuità.

La disperazione; è solo quella che ti porta, a volte, a fare delle scelte pesanti; è la disperazione che ti fa infilare in tunnel dove l’uscita è talmente lontana che sembra non esistere.

È stata la disperazione che mi ha fatto accettare l’oscuro lavoro dello scafista;

e siccome ero tra i pochi a fare quel lavoro avendo studiato, i miei compagni di viaggio mi soprannominarono “Caronte”;

forse senza nemmeno rendersi conto del “peso” che comportava avere addosso quel nomignolo; oppure un nome scelto come fosse un presagio, perché l’inferno, il mio inferno, iniziava da qui.

Ricordo ancora quella prima traversata…

il mio primo carico di “merce”; lo scafo carico all’inverosimile con i corpi ammassati; stretti l’un l’altro per lo spazio angusto e per cercare di riscaldarsi sfidando il freddo delle notti invernali.

E poi silenzio radio e luci spente, e il Canale d’Otranto, nero come la pece, da attraversare sperando di non incrociare le vedette italiane o peggio ancora, quelle albanesi;

”quelli” non ti fermano…

ti abbordano; salgono e ti rapinano di quei pochi averi che ci sono a bordo; e a volte obbligano delle donne a salire a bordo della loro barca e vanno via; con aria soddisfatta, con risate di scherno, non curandosi di aver razziato i propri fratelli, non curandosi del pianto dei bimbi privati delle loro madri, lasciando il “lavoro sporco”, quello di polizia, agli italiani.

E poi…

non c’è nemmeno il tempo per piangere sui soprusi subiti; sulla compagna persa, rapita dai tuoi stessi conterranei; l’oscurità ti riassorbe, e il vento del mare asciuga le lacrime seccandole come pietre di sale sul viso.

Si riparte…

e nel buio si percepisce a malapena la scia bianca lasciata dalle eliche prima che lo scafo ritorni a planare sull’acqua.

Ore…giorni…mesi vissuti così; tutti incredibilmente uguali se non fosse per le condizioni del mare che variano; se non fosse per quello stesso mare che ti segna la pelle, scavandola come una cicatrice indelebile.

Un altro viaggio, manca poco tempo ancora, e la terra è vicinissima ormai, ancora pochi minuti per dire fine ad un’altra traversata; il motore che cala di giri nell’avvicinarsi alla costa, e il silenzio che sembra di colpo assordante…il viaggio è stato tranquillo e tra poco sarà tutto finito ancora una volta.

Poi, di colpo un lampo accecante;

mille fari puntati contro, e le vedette della Capitaneria che si lanciano al nostro inseguimento; mentre a terra si distinguono chiaramente le luci dei mezzi della finanza che attendono lo sbarco. Ho parlato troppo presto penso, e subito sento un urlo che quasi copre le sirene delle vedette, “Cazzo! Siamo fottuti! SIAMO FOTTUTI!”; grida il mio secondo; mentre io provo a ridare slancio ai motori ormai quasi fermi;

lo scafo ha un sussulto, si imbarca a sinistra per la virata stretta e si impenna quasi all’inverosimile.

Vedo i corpi sballottati aggrapparsi alle cime e stringersi l’un l’altro nel tentativo vano di resistere a quei sobbalzi; vedo volare giù dalla barca uno, tre, non so più quante persone, che divengono presto ombre inghiottite dalla notte; tutto questo mentre gli scafi della Capitaneria di Porto ci sono addosso…

è finita…siamo troppo pesanti per riprendere il largo in fretta;

leggo la disperazione nei volti di tutti; ma forse è quella disperazione che ti fa provare l’ultimo tentativo…quello estremo…

“Tutti in acqua!”.

Quando sento gridare quell’ordine dalla voce del mio secondo, ho un sussulto, non posso credere che la nostra salvezza dalle motovedette della Capitaneria debba coincidere con il sacrificio di tanti miei connazionali.

Faccio un gesto di disappunto, provo a controbattere a quell’assurdo ordine;

ma quello grida ancora: “LASCIALI ANDARE! TANTO LORO ADESSO SONO UN PROBLEMA DEGLI ITALIANI!”;

Non capisco;

forse è perché siamo esseri infelici riusciamo ad essere così crudeli; tutto si compie nonostante i miei sforzi per cercare di impedire una tragedia nella tragedia; tutto dura pochi secondi sotto la minaccia delle armi; non c’è il tempo di pensare, non c’è nemmeno la forza per opporsi; la speranza, l’unica soluzione, è quella di raggiungere terra a nuoto e magari di riuscire a sparire nella macchia; oppure di essere tratti in salvo dagli italiani; pazienza se questo comporterà il rientro in patria ma almeno si passerà una notte con vestiti asciutti e un pasto caldo; in pochi istanti si consuma sotto i miei occhi questa efferatezza.

Ho i conati di vomito; troppo per resistere, per restare impassibile davanti a questo; ma è impossibile reagire; in fondo io sono solo un “pilota” gli altri hanno il controllo e le armi; in testa ho mille pensieri, ma solo una scelta da fare;

pochi secondi per pensarci e anche io abbandono lo scafo tuffandomi in quell’acqua gelida; sotto gli occhi quasi increduli degli altri dell’equipaggio, che senza scomporsi più di tanto prendono i comandi dello scafo oramai vuoto e tentano la fuga disperata.

I miei ricordi di quella sera si fermano in quel preciso istante, al mio tentativo di raggiungere la costa; ai brividi ghiacciati che lentamente ti bloccano ogni movimento contro la tua volontà che, invece, vorrebbe che tu andassi avanti; una lotta per sopravvivere mentre una parte di te spera che finisca tutto il più presto possibile; inghiottiti dal nero tutto intorno;

e per me che sognavo palcoscenici illuminati, invece cala un sipario nero su tutto.

E’ passato tanto tempo da quella notte…

non so bene quello che accadde di preciso; ma il destino, o chi per lui, volle che fossi tra quei pochi “ripescati” dalle acque gelide del canale d’Otranto.

E adesso, dopo aver superato mille umiliazioni e tante difficoltà, sono finalmente in quella terra che sognavo da ragazzo, il mio inferno ora è finito; tutto ricomincia da qui.

Ho smesso di sognare da tempo; perché i sogni mi regalano ancora solo incubi e tristezza;

ma credo ancora nei brividi, quei brividi che ti possono regalare la voce di Gillan mentre canta “Child in Time”; o il flauto traverso di Jan Anderson dei Jethro Tull; quei brividi che trovi nella voce tenebrosa e dark di Ian Curtis e dei suoi Joy Division, e in quella quasi erotica di Bowie in “Wild is the Wind”; oppure in quello strano mix di sensualità e follia di Janis Joplin…

Io credo, che anche se fuori l’alba sorge è la notte che prende il sopravvento…

sono vivo, libero di vivere in un mondo che sognavo.

Ma…

io se mi guardo dentro vedo il mio cuore nero…”.

Adan “Caronte”.

p.s.

Se questo racconto vi è piaciuto potete supportarlo nel link che trovate qui.
Potete anche tradurre il racconto con il tasto di google translate presente nel sito.

Grazie.

Raffaele

Favole metropolitane – 3a parte

Favole metropolitane – 3a parte

Nel 2015 ho pubblicato il mio primo libro con la casa editrice Edit@ Edizioni di Taranto, “Favole metropolitane – Il vinaio e altre storie“, una raccolta di racconti che ha ricevuto molti apprezzamenti dai lettori.

pubblico qui alcune storie tratte dal libro.

la prima è quella che dà il nome al titolo “Il Vinaio”

p.s. la pubblico a puntate per questioni di lunghezza.

Per acquistare il libro o chiedere informazioni, contattatemi

Raffaele

 

In 2015 I published my first book with the publishing house Edit @ Edizioni of Taranto, “Metropolitan Fables – The winemaker and other stories”, a collection of short stories that has received much appreciation from readers.

I publish here some stories from the book.

the first is the one that gives its name to the title “Il Vinaio”

P.S. For reasons of length, I publish it in episodes. 

to buy the book, follow the links or ask for information through my contact

Il Vinaio pt.3a (chap.VI to chap.VII)

VI.

 Ma come tutte le cose che hanno un inizio e una fine, anche l’estate finì, e con i primi temporali che annunciavano l’arrivo dell’autunno, terminò anche la possibilità per me di continuare a recarmi assiduamente in paese, il lavoro lasciava pochi spazi alla mia vita, e i momenti di socialità erano sempre più rari; devo dire che quando ne avevo avuto l’occasione, avevo tentato di applicare le filosofie di Rodolfo ai miei incontri galanti, ma, alla fine, avevo riscosso successo più per la mia “rinnovata” arte culinaria, che per le doti intrinseche di conquistatore, riscuotendo complimenti per la prima, e prendendo, per l’altra parte del programma, una serie infinita di “due di picche”. La mia vita cittadina scorreva così, tra alti e bassi, quasi seguendo il repentino cambio delle temperature, e quando il mio umore era particolarmente nero, sognavo quell’angolo di paradiso e quei tavolini consumati dal tempo e dai venti di mare.

Fu una mattina di dicembre, quando, incolonnato nel traffico, sotto un temporale incessante, mentre ero assorto in mille pensieri, di colpo il suono del cellulare mi fece sobbalzare; al telefono riconobbi la voce, inconfondibile, dall’accento genovese oramai misto a quello del Sud di don Saverio che, cercando di nascondere ogni emozione, mi invitava a recarmi con una certa urgenza in paese; nonostante i miei mille tentativi di ricevere spiegazioni, il parroco non si sbottonò più di quanto detto, dandomi appuntamento in paese. La giornata, dal punto di vista lavorativo, non era certo iniziata un granché bene, tra il temporale e vari screzi in ufficio a prima mattina, e allora ne approfittai di questa strana richiesta per lasciar perdere tutto e concedermi una breve pausa ritornando in paese.

Il temporale, forse per farmi compagnia lungo la strada, non mi mollò un solo secondo, l’acqua scendeva giù a secchiate tanto da impedire quasi la guida, ma stoicamente, e con l’incoscienza che non mi aveva mai abbandonato in questi anni, proseguì verso il mio obiettivo; fu all’ultima curva, quella prima del paese, che la pioggia smise di cadere quasi di colpo e un timido raggio di sole fece capolino tra le nuvole; meglio così, pensai, “eviterò l’ombrello”, un complemento del vestiario invernale che odiavo.

Parcheggiai poco prima della piazza, in un punto dove non si godeva di nessuna vista particolare, lo avevo scelto apposta come parcheggio, benché si potesse arrivare fino in piazza, ma portare un’auto fin laggiù mi era sempre sembrato come portare violenza ad un luogo sacro, in fin dei conti, quello, per certi versi, era il mio paese, il mio angolo di paradiso e cercavo di preservarlo in tutti i modi.

Lo stupore mi prese quando, superato l’angolo, vidi la piazza gremita di persone; cosa stava succedendo? Non era domenica né un giorno festivo particolare, e, mentre mi ponevo queste domande, iniziai a scorgere chiaramente la figura del sindaco, con la sua fascia tricolore delle grandi occasioni sempre più sdrucita, che non nascondeva, come tutti i paesani intorno, di aver sostato in piazza anche con il temporale, subendo l’ira delle intemperie; cos’era successo di tanto importante da avermi contattato al telefono, cosa mai successa in tanti anni di frequentazioni, e, soprattutto, da restare lì riuniti noncuranti della pioggia scrosciante? Mentre le domande si accavallavano una dopo l’altra, finalmente scorsi la figura di don Saverio, vestito di tutto punto con i suoi paramenti, e arrivato in piazza mi accorsi che le facce, che avevo pensato fossero state messe a dura prova dal temporale, in realtà erano intristite, e solcate da lacrime, piangeva il sindaco e persino don Saverio non riusciva ad emettere parola senza che si notasse una profonda commozione…il vociare sommesso terminò in quell’istante in cui avevo messo piede in piazza, quasi aspettassero tutti il mio arrivo, e, con preciso tempismo, partì l’omelia del parroco: “oggi, fratelli miei, la nostra comunità perde qualcosa, ma soprattutto, qualcuno, uno di noi, Rodolfo, il “vinaio”, come amava farsi chiamare, non c’è più, se ne è andato così come era giunto, senza far rumore…”, ogni tanto don Saverio si interrompeva per riprendere il fiato ed asciugarsi una delle tante lacrime che solcavano il suo volto, poi, lentamente, riprendeva: ”non piango solo per la perdita di un concittadino, ma per quella di un amico, un confidente fidato, un uomo generoso…”, fu a quel punto che non ce la fece più a continuare il suo discorso e per nascondere, senza successo, la sua commozione, diede la benedizione al feretro dando termine alla funzione.

Fu a quel punto che dal fondo della piazza si udì un timido battito di mani,  a cui ne seguì un altro e un altro ancora fino a diventare un applauso da prima teatrale…il “vinaio”, era riuscito anche in questo, aveva trasformato il lutto in una festa di paese.

Don Saverio, cercandomi in mezzo alla gente, mi prese sottobraccio, e mi portò in disparte, passeggiando lentamente arrivammo di fronte alla locanda, a quel punto, mettendosi una mano in tasca ne tirò fuori un foglio ben piegato; era uno di quei “fogliacci” di carta riciclata color “paglia” che Rodolfo usava come tovaglietta sottopiatto, “me l’ha data lui…è per te”, mi sussurrò, con la voce ancora rotta dalla commozione, “…ed io ho promesso che l’avrei consegnata solo a te e che nessun altro avrebbe letto il suo contenuto…”; poi cercando ancora in tasca, ne estrasse una chiave, di quelle per chiavistelli  “antichi”, una chiave che io conoscevo bene, avendola vista per anni appesa al chiodo proprio davanti alla porta della locanda, “lui ha voluto così…adesso è tua, fanne buon uso…”

Dopo questo breve colloquio, si congedò salutandomi con un abbraccio fraterno; ancora incredulo per quanto visto e sentito, poggiai la chiave sul tavolo sotto la tettoia, e mi sedetti aprendo quel foglio, e stirandolo, piega dopo piega, come se avessi tra le mani la mappa del tesoro di chissà quale pirata, una volta steso bene sul tavolo, iniziai a leggere, mentre un leggero groppo mi prendeva la gola…

VII.

“Amico mio, non siamo eterni su questa terra, e, se la matematica e il tempo, come spero, avessero ragione, io me ne andrò prima di te;

la mia vita l’ho vissuta affrontando mille peripezie e mille avventure, che di certo non racconterò in queste mie righe, ma lascerò che continuino ad essere raccontate dalle bocche del paese, in fin dei conti a me piace così…

forse le mie lezioni non ti avranno aiutato a diventare un “tombeur de femmes”, ma sicuramente oggi sai distinguere una misera frittatina da una carbonara fatta come si deve, e, soprattutto, ci saprai accostare un vino che non ti faccia sfigurare con i tuoi clienti; dico “tuoi clienti”, senza sbagliare, visto che questo piccolo mondo adesso è tuo; sono convinto che la vita cittadina non fa per te, e se non avessi capito questo, me ne sarei ben guardato dal distribuire consigli e stappare bottiglie solo per discutere con te di donne e cibarie…”,

leggevo e mi sembrava di sentire quelle parole dalla sua voce carica ancora di un accento toscano mai abbandonato, tirai un respiro, quasi per riprendere fiato, e continuai la lettura:

“…Abbi cura di te stesso, dei miei concittadini, della locanda e della mia barca…

a proposito…non ha ancora un nome, aspettavo di averne uno speciale per battezzarla…le mie raccomandazioni terminano qui, il resto dei miei desiderata te lo avranno già esposto don Saverio e il sindaco.

Dimenticavo, ma questo resti tra noi, non ho mai conquistato una donna con un vino accostato alla sua personalità, ma con le parole giuste e i fatti forse si; poi, molto spesso le strade del cuore non seguono quelle del gusto, ma questi sono particolari trascurabili…non mi resta che augurarti buona vita…”.

Rodolfo, il “vinaio”.

p.s.

“starai sicuramente, dopo tutto questo, pensando al passito…beh, sappi che  per quello non ti spetta nessuna risposta, nessun segreto da svelare, ma cerca, appena puoi, nella cantina della locanda, troverai una bottiglia di quel prezioso nettare che ho portato dalla mia terra, era destinato alla “meditazione” con la donna che avrebbe condiviso tutto questo, ma la sorte non mi arriso in questo, ma si sa, questi sono punti di vista…”.

Confesso di aver lasciato cadere una lacrima proprio alla fine del foglio, a questa seguì subito un sorriso, in fondo, sono sicuro che lui avrebbe voluto così.

Sono passati anni da allora, a dire il vero, non so bene quanti, la “Locanda di Rodolfo”, così ho deciso di chiamarla, è diventata un ritrovo abituale per palati raffinati, e il suo nome spicca nelle guide gastronomiche più conosciute, la barca, resta ancora senza nome e la bottiglia di prezioso passito toscano è gelosamente custodita nella sua cassetta di rovere in cantina; quella che è cambiata, è la mia vita, i “mal di stomaco”, le emicranie e gli sbalzi di umore continui, dovuti allo stress lavorativo ed alle discussioni cittadine, sono terminati da un pezzo; e quando la sera, dopo aver messo i tavoli a posto, chiudo la locanda, faccio quasi sempre una scappata al piccolo cimitero dietro la chiesa; li una lapide in marmo, fatta fare apposta dal sindaco, su un suo bozzetto, dal solito artista del monumento, porta inciso semplicemente due righe, come lui aveva voluto, Rodolfo “il vinaio”, la guardo, sorrido lo saluto e vado via…in fondo…lui…avrebbe voluto così.

Fine

Favole metropolitane – 2a parte

Favole metropolitane – 2a parte

Nel 2015 ho pubblicato il mio primo libro con la casa editrice Edit@ Edizioni di Taranto, “Favole metropolitane – Il vinaio e altre storie“, una raccolta di racconti che ha ricevuto molti apprezzamenti dai lettori.

pubblico qui alcune storie tratte dal libro.

la prima è quella che dà il nome al titolo “Il Vinaio”

p.s. la pubblico a puntate per questioni di lunghezza.

Per acquistare il libro o chiedere informazioni, contattatemi

Raffaele

In 2015 I published my first book with the publishing house Edit @ Edizioni of Taranto, “Metropolitan Fables – The winemaker and other stories”, a collection of short stories that has received much appreciation from readers.

I publish here some stories from the book.

the first is the one that gives its name to the title “Il Vinaio”

P.S. For reasons of length, I publish it in episodes. 

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Il Vinaio pt.2a (chap.IV to chap.V)

IV.

Per lui, le donne erano come il vino; mi spiegava come la cena appena fatta, dai gusti così decisi, non fosse certo per tutti i palati; e per quello che avevo degustato, e per un vino così, corrispondeva una certa tipologia femminile; rosso rubino intenso, profumi decisi, tasso alcolico sostenuto, gusto secco e asciutto.

Beh…fu così che inizio la vera lezione della sua filosofia; il punto era che mai ti saresti sognato di sperare di passare una serata “allegra” insieme all’ospite di una cena così, senza prima aver dovuto esporre tutta la tua cultura acquisita in anni e anni di studi, sfoderando tutta la parte di “capitano d’azienda” che c’era in te, non senza tralasciare la conoscenza di almeno 5 modi di annodare una cravatta e il giusto abbinamento da farsi tra abito e camicia, che le ultime passerelle, tra Milano e Parigi, avevano previsto; senza contare la preparazione culinaria di “alta scuola” sul giusto equilibrio tra i sapori delle varie pietanze.

Praticamente, ero rovinato in partenza! io che la cravatta l’avevo usata l’ultima volta per la mia comunione, e sotto imposizione di mia madre. In sostanza, non avrei mai avuto ragione di una venere in tailleur Giorgio Armani, con gonna al ginocchio anche nel pieno dell’estate; non ne parliamo poi del momento culturale, il confronto tra la mia cara vecchia “Gazzetta dello Sport” e il “Sole 24 ore” non avrebbe retto un solo secondo…

le mie speranze si erano spente così come i miei riflessi annebbiati dal cibo e dai troppi bicchieri versati da Rodolfo…la prima lezione e la serata finiva lì; in compenso avevo capito che avrei dovuto evitare nella mia vita futura le donne manager, beh, questo era già qualcosa!

Il giorno seguente il mio tutor, non pago dell’avermi steso la sera prima, a mezzogiorno era già ad attendermi sulla porta spalancata della locanda, aveva tutta l’aria di chi aspettava con impazienza, mancavano pochi minuti “al tocco”, ma già una vistosa tovaglia a quadri ricopriva il tavolo che ero solito occupare sotto la tettoia. Non ebbi quasi il tempo di salutare con un “buongiorno!” ancora assonnato, che l’oste scomparve dietro la porta per poi riapparire con una serie di vassoi colmi di prelibatezze.

Il menù del giorno era in tema con la bellissima giornata, dove un cielo azzurro intenso si fondeva nei colori del mare, dai vassoi di portata facevano bella mostra, in un trionfo di profumi, degli alicetti a crudo con olio limone e menta e del pepe nero in grani tritati grossolanamente, una leggera “caponatina” di melazane dal sapore lievemente agrodolce con basilico fresco, e, per completare il trittico, una pasta al tonno fresco con melanzane, pinoli e prezzemolo; a chiudere le portate, un piatto di fichi freschi e dolcissimi appena colti dal suo albero, e, ad accompagnare il tutto, una bottiglia di “Negramaro rosato” salentino; un nettare dai sapori fruttati, toni acerbi e profumi delicati da bersi rigorosamente fresco.

Anche qui, tra i bicchieri che venivano riempiti senza che si potessero mai svuotare completamente, e senza la possibilità di opporsi a questo “riempimento”, il mio mentore sciorinò momenti di cultura da profondo conoscitore del complicato mondo femminile, che a dire il vero, già dalla prima lezione, a me sembrava ancora più complicato di quanto credessi. A suo insindacabile giudizio, la freschezza di un vino “rosè” mi avrebbe condotto tra le braccia di una donna, si smaliziata, ma perfettamente consapevole delle sue azioni, quindi, per un aspirante tombeur de femmes, questo significava estremo pericolo; insomma in poche parole, si correva il rischio di passare da manipolatore a manipolato…e mamma mia!

Pensare che fino ad allora avevo bevuto rossi e rosati senza la consapevolezza del sapere dei rischi che avevo corso nell’avere una donna a cena…è proprio vero, non si finisce mai di imparare!

Così anche stavolta barcollando, ma cercando di mantenere un dignitoso contegno nei riguardi di chi potesse vedermi in quello stato, mi ritirai per concedermi il meritato riposino pomeridiano…

V.

Passammo la lunga estate tra varie lezioni e discussioni, di quando in quando mosso da un eccesso di sicurezza in tema, osavo controbattere le ferme convinzioni del mio interlocutore, ma tutto ciò che ottenevo era l’apertura di una nuova bottiglia, il dilungarsi della discussione senza successo da parte mia, e la sempre più vicina sensazione che, alla fine questi “corsi” mi sarebbero serviti a poco per conquistare donne, ma avrebbero fatto di me un aspirante alcolista anonimo.

Intanto, settembre era alle porte, e le mie visite in paese si limitavano ai fine settimana ed ai pochi giorni in cui riuscivo a fuggire dal kaos cittadino…questo, con sommo disappunto di Rodolfo, che non vedeva di buon occhio le mie assenze, per lui del tutto ingiustificate…

in fin dei conti cosa poteva offrire in più la città rispetto a quello che offriva quel suo piccolo grande mondo? La cosa proprio non gli andava giù, e non c’era, da parte mia, giustificazione, nemmeno quella più ovvia che per poter essere lì ogni tanto dovevo pur lavorare per permettermelo, che potesse reggere ai suoi ragionamenti.

Le nostre ricche disquisizioni procedevano con il passare delle settimane, e con queste aumentava la mia conoscenza in vini, cibarie, donne…e, di conseguenza anche il tasso alcolico nel mio sangue, ma si sa, la cultura ha un prezzo da pagare! E, restando in vena di dotte citazioni “il fine giustifica i mezzi[1].

Una domenica mattina, dopo tante passate da allievo in paese, svegliato di buon’ora, dopo la mia solita passeggiata sulla spiaggia, mi affrettai a fare rientro in paese, quello, a dire del mio maestro, era il grande giorno; dopo tutte le lezioni era giunto il momento della mia “promozione”, da quell’istante l’enogastronomia applicata al pianeta “femmina” non avrebbe più avuto segreti per me, quindi il mondo avrebbe potuto iniziare a tremare, o a barcollare per l’ubriacatura presa…mah!…punti di vista!

La lezione finale aveva come “dispense” obbligatorie: un piatto di cozze crude ricoperte da scaglie di “cacioricotta”, un magnifico piatto di linguine con scampi e cozze con prezzemolo freschissimo tritato a crudo e scorzetta di limone grattugiata, carpaccio di gamberi e funghi prataioli con rucola ed erba cipollina, e delle triglie “settembrine” al cartoccio con pomodorini, aglio e prezzemolo; ad accompagnare questo lauto pranzo di commiato, un paio di bottiglie di “Prosecco di Valdobbiadene” che faceva a gara con i profumi delle portate. Ormai non c’era il tempo per pentirsi di aver iniziato quella avventura, per cui con l’impegno e la costanza di un vero studente modello, diedi fondo a tutto quel trionfo di profumi e sapori, non senza attendere, satollo, la lezione finale che non tardò ad arrivare…

Meno pericoli si correvano con la donna dal carattere “spumeggiante” da vino frizzante, o da “bianco brioso”, vuoi per le bollicine che hanno il potere di nascondere i toni alcolici, facendo passare una “euforia” da ubriacatura per gli effetti afrodisiaci contenuti nel vino e nei cibi, vuoi per una certa predisposizione al “dialogo” che il carattere della stessa poteva evidenziare; insomma, un neofita del mio stampo, almeno agli inizi della “professione”, avrebbe dovuto tralasciare il brasato al barolo e i rossi impegnativi, per dedicarsi ad una più “popolare” e tranquilla, pasta ai frutti di mare innaffiata da un bianco di qualità, magari frizzante; poi restava la speranza di aver azzeccato il vino, la portata, ma, soprattutto la donna!

Avevo passato mesi, ad apprendere la conoscenza di Merlot, Cabernet, Sauvignon, Barolo, Chardonnay, Pinot grigio, Negramaro, Primitivo, Chianti, rossi , rosati, bianchi e prosecchi in genere, e ad abbinarne le giuste pietanze giocando anche sui contrasti dei sapori… ma all’appello mancava qualcosa.

Fu così, anche per far vedere che avevo studiato e fatto diligentemente i compiti a casa, che alla fine del pranzo, sotto l’occhio vigile dell’oste, mi sistemai sulla sedia ritto e, quasi con tono di sfida, posi la domanda da 100 milioni di dollari

”si vabbè, vada per tutto quello imparato fino ad ora, bianchi, rosati e rossi non hanno più segreti per me, ma i passiti, che posto hanno i passiti nella carriera di un novello latin lover enogastronomico?”

Ero talmente soddisfatto della mia domanda, che mi accorsi solo dopo della fronte corrugata del mio “insegnante”, una ruga che si andava estendendo sempre di più minuto dopo minuto, il mio intento era stato di domandare per stupire, ma adesso ero quasi pentito di aver solo pensato di porre la questione…

Ma ormai era troppo tardi, il danno, se di danno si trattava, era stato fatto…

Rodolfo tagliò corto, quasi con stizza, corrugando ancor di più la fronte: “il passito? … Il vino passito è un tipo di vino caratterizzato da una consistenza liquorosa e da una profumazione intensa di note fruttate, di miele e di fiori appassiti, particolarmente adatto da apprezzare a fine pasto, magari in compagnia di dolci e biscotteria secca. Ricorda, però, che, non tutti i vini prodotti con uve fatte appassire, come l’ ”Amarone” della Valpolicella ed il “Graticciaia” Rosso del Salento, presentano sensazione di dolcezza al gusto…”

La spiegazione questa volta, rispetto a quelle ricevute prima, era stata alquanto didascalica e accademica, e priva, sicuramente, della parte emotiva che aveva caratterizzato le altre fino ad ora.

…”si, vabbè, ma le donne?”, fui pronto a ribattere, con l’incoscienza di colui che non sa di preciso dove si sta andando ad infilare, ma che dopo cotanti studi approfonditi cercava risposte in tutta la produzione vinicola italiana e d’oltralpe; “le donne? Quali donne? Non ci sono donne per quel genere di vino!” questa fu la risposta evasiva e succinta di Rodolfo, che quasi a voler sfuggire ad altre mie considerazioni gastronomiche, si alzò dalla sedia e raccogliendo in fretta e furia i piatti dal tavolo scomparve all’interno della locanda, a quel punto non osai più aggiungere altre parole e restai ancora un po’ seduto a godermi quella giornata così bella e così strana.

La mia preparazione, dal canto suo, sembrava avesse avuto termine in quel preciso istante; forse sarà stata anche la tramontana settembrina, ma la sensazione che l’aria intorno si fosse di colpo raffreddata era palese, non capivo, nonostante tutto, dove avessi potuto sbagliare; di discussioni accese su donne, cibi, vini e quant’altro ne avevamo avute tante, ma mai era accaduto che la cosa venisse così tranciata di netto, senza apparente giustificazione; d’altro canto, più andavano avanti le mie conoscenze in tema, più mi convincevo che tutte queste discussioni servivano soltanto a dargli l’occasione per riempirmi il bicchiere di questo o quel vino, chiedendomi pareri sui vari abbinamenti delle pietanze, approfittando, in quel modo, per erudirmi sulla preparazione degli stessi piatti.

Fatto sta, che femmine o no, tutte le volte mi alzavo barcollando da quei tavolini cercando un posto all’ombra dove stendermi per riposare dalle fatiche “gastronomiche” a cui ero stato sottoposto.

[1] Per raggiungere il fine di conservare e potenziare lo Stato, viene popolarmente e speculativamente attribuita a Machiavelli la massima “il fine giustifica i mezzi” secondo la quale qualsiasi azione del Principe sarebbe giustificata, anche se in contrasto con le leggi della morale. Questa attribuzione, più ascrivibile a Ovidio (Cfr. “Heroides” con “exitus acta probat”) è perlomeno dubbia dato che non trova riscontro nel “Principe” e nemmeno in altre opere dell’autore e dato che, in merito a questa questione, vi sono elementi contraddittori all’interno dell’opera.

To be continued…Tomorrow

Favole metropolitane – 1a parte

Favole metropolitane – 1a parte

Nel 2015 ho pubblicato il mio primo libro con la casa editrice Edit@ Edizioni di Taranto, “Favole metropolitane – Il vinaio e altre storie“, una raccolta di racconti che ha ricevuto molti apprezzamenti dai lettori.

pubblico qui alcune storie tratte dal libro.

la prima è quella che dà il nome al titolo “Il Vinaio”

p.s. la pubblico a puntate per questioni di lunghezza.

Per acquistare il libro o chiedere informazioni, contattatemi

Raffaele

In 2015 I published my first book with the publishing house Edit @ Edizioni of Taranto, “Metropolitan Fables – The winemaker and other stories”, a collection of short stories that has received much appreciation from readers.

I publish here some stories from the book.

the first is the one that gives its name to the title “Il Vinaio”

P.S. For reasons of length, I publish it in episodes. 

to buy the book, follow the links or ask for information through my contact

Il Vinaio pt.1a (chap.I to chap.III)

“IL VINAIO”

“Nulla avviene per caso, ma tutto secondo ragione e necessità.”

Leucippo, Frammenti, V sec. a.e.c

I.

Rodolfo era l’oste di una piccolissima locanda situata nella piazza del paese, ma preferiva definirsi il “vinaio” per i suoi decantati trascorsi toscani, di lui, in paese, si raccontavano mille storie diverse, come quella che fosse stato nella Legione straniera in seguito a trascorsi burrascosi di gioventù, e che poi, fuggito da questa, avesse messo testa a posto e iniziato la sua attività; altro gettonatissimo racconto, era la storia legata ad un amore non corrisposto o, come alcuni tra i più informati dicevano, perduto tragicamente durante la guerra, nell’unico bombardamento che aveva colpito il suo paese; da qui la fuga lontano dalle sue colline, quelle toscane appunto, e l’approdo in quel posto dove era rimasto folgorato dalla pace che vi regnava e dal profumo del mare che ne bagnava le coste.

Ed era li, dove il piccolo porto quasi confinava con la piazzetta, che aveva comprato,  ristrutturandolo alla bene e meglio, un vecchio rudere che per anni aveva fatto da ricovero invernale alle barche,  poi con il passare degli anni, a causa della ricerca di benessere che aveva portato i giovani verso le fabbriche e la pesca che non costituiva più l’attività principale del paese, era stato abbandonato alle incurie del tempo.

Nell’acquistarlo, il buon Rodolfo, aveva trovato compreso nel prezzo un vecchio gozzo “genovese” quasi in disarmo completo, il vecchio proprietario lo aveva lasciato li, “buono come legna da ardere” gli aveva detto, ma lui con pazienza certosina, tanto tempo a disposizione, e i saggi consigli dei vecchi pescatori del paese, a quella barca si era dedicato anima e corpo, riuscendo a farle riprendere il lustro dei tempi passati, tanto che il giorno del suo varo ebbe l’onore di ricevere la presenza dell’intero paese, 70 anime in inverno, sindaco in prima fila con tanto di fascia tricolore consumata dal tempo indossata con sobria austerità.

È inutile dire che la mangiata che seguì la messa in mare fu tutta offerta dal vinaio, con grande soddisfazione dei commensali partecipanti, che in quel giorno gremirono la piazza quasi fosse la festa del santo patrono…

II.

La piazza del paese, forse faremmo meglio a definirla “il paese”; infatti, tutto il piccolo borgo si racchiudeva in quella piazza, che costituiva l’affaccio per la chiesetta con annessa la piccola canonica, il palazzotto, un pochino malandato, sede del municipio e della casa del sindaco, la locanda di Rodolfo che si confondeva con le casette che la circondavano, e una serie di aiuole ben curate intervallate da alberi di tamerici e agrumi selvatici che ne abbellivano il centro, dove si ergeva alla memoria dei posteri, il solito monumento ai marinai caduti nella grande guerra; questo recava alla base una vistosa targa in bronzo dorato, che aveva il compito di ricordare che questa opera d’arte era stata fortemente voluta dal sindaco, che ne aveva personalmente commissionato la realizzazione, su suo bozzetto, ad un ignoto artista locale, e che, a dire il vero, se fosse stato per quel monumento, avrebbe continuato certamente l’anonimato nella sua carriera d’artista.

Io ero giunto in quel posto dimenticato dalle guide turistiche quasi per caso, una svolta sbagliata, la strada che non permetteva una veloce inversione, ed ecco apparire dietro una curva lievemente in discesa, quella piazzetta degna di un quadro d’autore; il mare invernale sullo sfondo non faceva che amplificarne la bellezza, non vi dico poi la sensazione di pace che regnava quando, sceso per rendermi conto della posizione, venni rapito da quel paesaggio; solo fidando su questi elementi, avevo deciso, qui avrei passato tutti i momenti di relax e le mie pause lontano dalla vita cittadina, guardandomene bene dal consigliare questo posto a chicchessia, nel tentativo di lasciarlo nascosto agli occhi del turismo di massa.

Conoscere Rodolfo era stato il secondo passo, direi oggi che fu quasi una scelta obbligata, vista la totale mancanza di qualsiasi cosa che assomigliasse ad un punto di ristoro, in paese, prima della sua locanda, si viveva del pane sfornato tre giorni alla settimana da donna Carmela, famosa nella comunità per le sue “frise”[1], poi, la verdura, la frutta e le uova erano produzione diretta locale, più o meno tutti possedevano galline, polli, conigli e un piccolo orto dove coltivare verdure e frutti di stagione, e, comunque vigeva l’uso dello “scambio”, un bel pezzo di pane per una cesta di fresche verdure…e così via…

d’estate, poi, per  rimediare a queste mancanze che potevano far fuggire i pochi turisti attratti dalla bellezza delle coste, arrivava un bel furgoncino attrezzato di tutto punto come un bar salumeria, e Giovanni, il proprietario, passava la stagione alloggiando in una stanzetta messa a disposizione dal sindaco, ritornando in città solo per rifornirsi di bevande e cibarie.

III.

La vita nel paese scorreva cadenzata dai ritmi imposti dal passare dei mesi. La piccola comunità si trovava riunita in piazza la domenica mattina dove spesso, per mancanza di spazio nella sua piccolissima chiesa, don Saverio esercitava la sua funzione di parroco del paese. Anche per lui, è inutile dire, le storie si avvicendavano in una matassa di racconti tra il serio e il faceto, rasentando, a volte, l’impossibile…c’era chi narrava di avergli visto chiaramente sulla spalla, mentre faceva il bagno in una caletta nascosta lontano dal paese, un grande tatuaggio raffigurante un serpente marino che si stringeva attorno ad un’ancora, e da questo ne avevano dedotto che potesse essere un marinaio che forse aveva scelto la via della diserzione nascondendosi negli abiti talari; oppure che fosse stato ricchissimo, e, caduto in disgrazia per la mania del gioco e delle donne, aveva cercato il conforto nella fede, e che, proprio per questi suoi “segreti trascorsi” fosse stato punito dalla curia, che ne aveva stabilito il confino ad oltranza in quel posto; questa teoria spiegava il fatto che, da quando era giunto, una decina di anni prima, nessun altro sacerdote aveva più messo piede in paese; ma quali che fossero i suoi segreti, anche lui, dovendoci vivere, come l’oste, s’era messo a lavorare di grande impegno risistemando la chiesetta e la canonica e portando un po’ di movimento e conforto nella, a volte, noiosa vita di paese.

Questo modo di vivere la vita mi era piaciuto sin da subito, e i tavolini in legno recuperati dai fasciami di vecchie barche e la tettoia in canne intrecciate della locanda di Rodolfo avevano fatto il resto. Passare i pomeriggi estivi all’ombra di quel patio, guardando il mare, leggendo un libro o scrivendo, e gustandosi un latte di mandorla ghiacciato, era veramente impagabile. Poi, attendendo l’ora di cena, c’era sempre il tempo per scambiare due chiacchiere con l’oste, e qui le discussioni divenivano spesso accese. Rodolfo aveva tutto un modo suo di intendere e spiegare la vita cogliendone gli aspetti, anche quelli più intimi e reconditi, attraverso la gastronomia e il vino…

E, siccome, io davo l’idea, per niente vaga, di capirci pochissimo in quel campo, fu per questo che decise, di sua sponte, che sarei stato l’allievo adatto a questo genere di lezioni, il mio “tutore” così diede inizio alla mia “acerba” conoscenza in merito, con una cena che iniziò con dei cipollotti in agrodolce serviti con scaglie di pecorino, a seguire, dei gradevolissimi involtini di pesce spada e melanzane con mentuccia e capperi di Pantelleria, e un fenomenale  “polpo in pignata”, il tutto “annaffiato” da una bottiglia di rosso “Donna Fugata” che sembrava aver conservato dentro tutti i profumi e i sapori della Sicilia, la mia prima lezione iniziò così, e, come accade spesso in tutte le “prime volte”, la ricorderò per tutta la vita…

[1] La frisa o frisella (o friseḍḍa, freseḍḍa, frisa nelle varie varianti pugliesi), chiamata anche fresella in napoletano, è un tarallo di grano duro (ma anche orzo o in combinazione secondo varie proporzioni) cotto al forno, tagliato a metà in senso orizzontale e fatto biscottare nuovamente in forno. Ne consegue che essa presenta una faccia porosa e una compatta. Importante è distinguere tra la frisa e il pane: la frisa infatti non è un pane, in quanto è cotto due volte (bis-cotto).

To be continued…Tomorrow

DE-PASCALIS-RID-2

On the Camino de Santiago route

On the Camino de Santiago route

Santiago no es el final del camino, es el principio.

Santiago is not the end of the road, it is the beginning.
(Paulo Coelho)

 

El Camino es como nuestra propia vida, debes dejar que te sorprenda a cada paso. El Camino se debe hacer desde la soledad de cada uno, en compañía de todo el mundo.

The “Camino” is like life, you have to let yourself be surprised at every step. The “Camino” must be done from the solitude of each, in the company of the whole world.
(Anonymous)

Galicia, the place where time has stopped

Galicia, the place where time has stopped

«Ti dis Galicia é ben pequena. Eu dígoche: Galicia é un mundo. Cada terra é coma se fose un mundo enteiro. Poderala andar en pouco tempo do norte para o sur, do leste para u oeste noutro tanto; poderala andar outra vez, mais non a has dar andado. E de cada vez que a andes, has atopar cousas novas e outras has botar de menos.

Vicente Risco: Leria (ensaio)

“You say Galicia is very small. I tell you: Galicia is a world. Every earth is like an entire world. You will be able to walk in a short time from north to south, from east to west in the same way; you can walk it again, but you haven’t walked it. And every time you go, you will find new things and you will miss others. 

Vicente Risco: Leria (essay)

Galicia is the place where time seems to have stopped;
wild nature, streams of fresh and clean water, little treasures that pop up when you least expect it.
The philosophy of the Galician people is all contained in their Hòrreos, a place to keep the precious corn, but which is like a casket containing who knows what treasures …
Here …
It’s all here …
But that doesn’t mean that all of this isn’t huge.

Raffaele

 

A trip to Galicia – Hórreos

A trip to Galicia – Hórreos

Quins is a tiny town in Galicia, but as often happens, it has its own peculiarity, in fact, it is the town with the largest number of “Hórreos” (a very particular agricultural construction where corn was kept) concentrated in the same place, a place which becomes almost magical, and that if you decide to visit Galicia it will be an obligatory stop for you on your trip.

Faith

Faith

Faith is a flame that is reflected in people in specific moments of life, and the family is often the center of this flame.

 

*the photos were taken in Armenia in the Geghard monastery.